Adelia Noferi «L’Alcyone nella storia della poesia dannunziana» (1946)

Recensione a Adelia Noferi, L’Alcyone nella storia della poesia dannunziana (Firenze, Vallecchi, 1945), «Belfagor», n. 5, Firenze, 15 settembre 1946, pp. 623-625.

Adelia Noferi «L’Alcyone nella storia della poesia dannunziana»

Il lavoro critico abbondantissimo sull’opera dannunziana ha ormai da tempo isolato l’Alcyone come periodo massimo di realizzazione del poeta, come rivelazione del suo mondo piú vero, pur oscillando fra una valutazione piú tecnica e storica (culmine di una cosciente poetica) e l’impressione di un riscatto romantico di nuda sincerità che si è venuto volgarizzando nel facile giudizio di uno stato di grazia aiutato da un negativo lavorio, da una specie di scrostamento di quanto D’Annunzio aveva adibito alla sua espressione dal Canto Novo in poi. E l’Alcyone era stata la misura suprema per quei critici che oltre al ritratto complesso dell’autore mirarono allo spaccato piú vivo della sua natura poetica: parola-musica per Flora, mito-paesaggio per Gargiulo. E malgrado l’esaltazione borgesiana della «Laus Vitae» come poema idealistico di una rivelata religiosità moderna, nell’Alcyone si è configurata per i critici la piú nitida e pur complessa geografia dell’animo poetico dannunziano, si è sentito piú puro l’accento di una religiosità fuori della sua decadenza retorica e del suo estenuamento letterario. Poi l’immagine di una nuova purezza poetica, di un nuovo D’Annunzio piú intimo (per alcuni psicologicamente, per altri nell’ambito di approfondita coscienza poetica), piú contemporaneo e duraturo, si è precisata nell’esame delle prose ultime, e il rapporto fra il poeta rivelato dell’Alcyone e quello segreto del Notturno o delle Faville si è imposto tanto piú necessariamente a chi nei problemi di storia letteraria tiene d’occhio il riferimento alla situazione del suo tempo, temendo, e spesso eccessivamente, la sterilità di una storia che nell’inevitabile base sul presente si impegna soprattutto nella ricostruzione di un’entità spirituale e culturale, proprio mediante la sua forza caratteristica e non funzionalmente ai suoi possibili sviluppi aposterioristici. Ma giustamente, se il problema dell’ultimo D’Annunzio finiva spesso per trasformarsi nell’ansia di riconoscimento e di tradizione di uno stile contemporaneo e serviva cosí piú ad un esercizio di poetica che di critica, il rapporto fra la musica dell’Alcyone e il discorso lirico degli ultimi libri poteva ben proporsi nell’ambito di una storia della poesia dannunziana, estendersi partendo dal centro dell’Alcyone (ripreso dunque come essenziale espressione dannunziana) all’accertamento di una trama che si addensa nella prima produzione e si sviluppa per tutta l’opera, trovando i suoi nodi cardinali nelle poesie del terzo volume delle Laudi. Ne poteva nascere cosí una storia complicata e pur schematica come intenzione di percorso che rivedesse tutto D’Annunzio attraverso l’Alcyone.

Ciò ha voluto fare, in un suo voluminoso lavoro, Adelia Noferi, muovendosi con molta disinvoltura su di un terreno estremamente difficile, in un giuoco che richiedeva una mano estremamente ferma (e perciò va subito riconosciuto coraggio nella concezione del libro ed una ambizione che supera il lavoro tradizionalmente scolastico). Diciamo subito che il libro risente di un modulo stilistico estremamente monotono e a suo modo scolastico e di una pretesa di aderenza puntuale tenace, ma alla fine arida, senza respiro. Non che dispiaccia per pigrizia il controllo continuo sui testi e quindi nella lettura un adeguato ricorso diretto ai testi stessi, ma, poco amanti di una evidenza formulistica, ci pare o preparatoria (ma viziata in questo caso da una struttura che si considera definitiva) o sofistica una lettura puntuale che non sappia organizzarsi solidamente o rappresenti l’impaludamento di una linea troppo generica o artificiosa. E certe caratteristiche di una scuola, che altrove si risolvono quasi in una linea neoclassica di autentica pagina artistica, son qui portate all’estremo non tanto come metodo di interpretazione quanto come moda espressiva, gusto di terminologia e di sintassi che pare a volte prevalere sulla genuina impressione critica e guidarla sopraffacendola.

Ma quali sono, entro questi limiti non davvero insuperabili in un atteggiamento piú libero, i risultati della lunga fatica della Noferi?

Bisogna premettere che D’Annunzio è risentito in questo libro in una ganga aderente di testi ottocenteschi e novecenteschi, con una coerenza veramente lodevole e con il risultato di una buona collocazione storica. Certi nomi, Gide, ad esempio, arricchiscono la consueta storicizzazione dannunziana nel clima europeo, come meno abbondanti e non organici ma interessanti sono gli accenni alla poetica dannunziana nei suoi legami con il milieu estetizzante contiano e con il Pascoli, che azzardano una vicinanza al fanciullino della cosiddetta innocenza dell’avventuroso (io nacqui ogni mattina).

Tema dell’innocenza che conduce anch’esso alla linea principale del libro: superamento in purezza stilistica dell’istinto sessuale dannunziano, vittoria nell’ultima prosa di una poesia in cui è abolita dall’interno ogni forma di retorica, di prepotenza pratica e psicologica; accordo felice di istinto e stile nell’Alcyone, dove si incontrano e donde si dipartono i fili segreti della poesia dannunziana.

«Tra il Canto Novo e il Libro Segreto il cerchio si chiude. Istinto e Stile. Consumato l’istinto non resterà alla fine che lo stile, il segno ultimo della sua strenua fatica, la superficie lucente di quella visiera di cristallo che rimane la sua maschera di poeta, o nella quale si fissano, in linee esatte e polite, la distanza superata delle favolose illusioni e delle segrete malinconie. A mezzo: l’Alcyone indica il punto della concordanza felice» (p. 538). A ben guardare, questo è l’equivalente di una formula ormai tradizionale per D’Annunzio, anche se qui viene complicata originalmente, e diventa fonte delle piú incerte approssimazioni e di un aggrovigliato intreccio di intuizioni piú affascinanti che unitarie, dalla ricerca di una nascita di condizioni di poesia dalla prosa e viceversa con centri precisi nel Fuoco per Alcyone, in Alcyone per la prosa poetica dell’ultimo periodo: prosa sperimentante e poesia liberante in una prima serie, poi avvio nella poesia ad una prosa perfetta tutta misura stilistica e traslucido ritmo. «I riferimenti alle risoluzioni fondamentali di certe crisi di gusto e di stile saranno sempre determinati dai versi, ad indicare, come le tappe lontane (formazione di immagini e di modi e di linguaggio nuovi) quasi i termini distanti di un contrappunto, tra i quali la prosa non farà che sperimentare ed affinare certe posizioni (preparando segretamente diverse esigenze) fino a che, dopo l’Alcyone, la scoperta di una validità assoluta non impegnerà le pagine in una ricerca sempre piú sottile e sensibile intorno allo stesso acquisto sicuro» (p. 13). Sperimentare della prosa che al di là dei momenti di poetica piú solidamente accentuati dalla critica dannunziana avrebbe il valore di un ritorno e di un affinamento in senso tutto stilistico. «Né quello sperimentare assiduo e quegli errori dovranno apparire vani, se vedremo, alla fine, disegnarsi nella parabola dello stile una sorta di linea a spirale, tornante cioè sui medesimi punti, a compiere il giro, ma su piani diversi, nel segno di un progresso sicuro: affinamento straordinario di poesia» (p. 19).

Questa linea, che si appoggia sulla nota constatazione di una mancanza di sviluppo spirituale del D’Annunzio e la estremizza riconoscendo solo uno sviluppo stilistico («non essere possibile in D’Annunzio una ricerca di sviluppi spirituali interiori, nascita e formazione di una ricchezza intellettuale e morale liberata in poesia; ma la ricerca soltanto di una formazione e sviluppo di stile: la strenua fatica letteraria che fu il suo impegno costante, il modo suo per il raggiungimento di certe qualità assolute», p. 468), conduce il lettore da uno studio sottile, ma spesso insabbiato ed incerto (si può notare, nella cura di precisione della Noferi, nella sua ricchezza di indagine di riferimenti una diffusa arbitrarietà che non coagula in vistosi errori, ma che tuttavia aduggia i risultati di sensibilità, le punte piú sicure del commento), sul primo D’Annunzio nei suoi nodi essenziali fra prosa e poesia (buona l’individuazione del passaggio di stile alle Laudi nella nuova edizione di Canto Novo e dell’Intermezzo, «che sta esattamente al mezzo, nel ’96, tra le ultime poesie paradisiache, del ’93, ed il primo avviso delle Laudi del ’99»), al vero e proprio commento critico dell’Alcyone, che costituisce la parte piú notevole del libro, anche se certi legami nello sviluppo interno del terzo delle Laudi appaiono sforzati e se tutta l’intenzione stilistica dannunziana è spesso ingrandita in termini di tecnicismo eccessivo. Nell’Alcyone, che la Noferi tende giustamente appunto perciò a spogliare di ogni carattere miracolistico, confluiscono i rapporti tra le precedenti esperienze, e nel nutrimento di quella che l’autrice chiama «illuminazione favolosa» le qualità stilistiche dannunziane giungono alla loro valorizzazione piú piena e meno astratta (istinto e stile). La tendenza alla musica vi si risolve in due direzioni, di cui la seconda avvierebbe all’arte piú misteriosa dell’ultima prosa: «Cosí, nel giro dell’Alcyone si giunge a due estremi: una perfezione di accordi verbali e sillabici, di certo gioco ascendente di ritmi: un incanto, insomma, sonoro dell’orecchio soltanto, che potrà essere riconosciuto nel Novilunio; ed una scoperta invece di un valore musicale piú interno, capace di risolvere e riscattare i pesi piú fondi in figure di scontata innocenza, identificabile con l’arte di Lungo l’Africo. Fra mezzo La Pioggia nel Pineto segnerà il trapasso sottile» (p. 266).

Dopo lo studio accurato dell’Alcyone (ricco di esami critici di singole poesie e di svolgimenti sottili di spunti tradizionali: la presenza femminile, la mimesi fonica dell’impressione sensibile), l’ultima parte del lavoro acquista ancor piú in acume sofistico e scade come valore critico nel tentativo poco riuscito di individuare in concreto lo sviluppo postalcyonico come ritorno di intuizioni della prosa precedente chiarite nell’Alcyone e divenute premessa «a certi acquisti estremi della prosa». La stessa indagine sull’Alcyone ritorna in termini piú generici e sforzati per aderire ai motivi delle ultime prose con cui il legame è piú indicato che chiarito, malgrado lo sforzo di particolarizzare, di scoprire temi generali (il racconto, la memoria) e di approfondire linee puramente stilistiche, moduli musicali, peso di parole. La notata arbitrarietà si fa piú evidente, i riscontri preziosi divengono spesso ambigui, artificiosi e sempre piú discutibile la pretesa di quella «storia continua», che è per la Noferi come per tanta critica contemporanea un’aspirazione giustissima, ma spesso anche un indice di tensione maniaca e alla fine intellettualistica. Quella «sorta di “storia continua” capace di chiarire puntualmente ogni esperienza di poesia», che nei suoi limiti generosi ed ingenui, di precisione e di approssimazione, la Noferi ha potuto ottenere, tra ondeggiamenti e linee piú eleganti che solide, per l’Alcyone, ma che si è perduta fuori dell’appoggio del commento piú immediato.

E di nuovo è solo nell’Alcyone che la Noferi riesce a mostrare quale sia il D’Annunzio caro alla poesia e «la costante coesistenza in tutta l’opera dei due D’Annunzio; che non saranno come i due Petrarca l’uno condizione diretta dell’altro, ma paralleli e discosti: impegnato quello nei suoi gesti superumani; questo nella fatica di dimenticarli e ritrovare una piú semplice umanità e toccarne il riscatto, attraverso una “storia” ed una preparazione, che include, all’interno della propria parabola, le necessità dinamiche di sviluppo» (p. 461). Per quanto proprio in questa separazione e in questo studio tutto di stile sia andato smarrito assai spesso quel divario fra istinto e stile che, per esser notato, richiede la presenza di tutti e due i termini. E troppo spesso l’indagine si è persa in un arabesco sottile, a forza di purezza, inanimato e scolorito. Da un’esperienza piú ariosa e piú spregiudicata della poesia la giovane autrice, ricca di notevolissime qualità, acquisterà uno sguardo piú chiaro e distaccato e quindi alla fine una possibilità maggiore di indagine aderente e concreta: e non perderà perciò l’essenziale gusto di lettura controllata e precisa (senza di cui la critica diventa eloquenza ed esercizio romanzato).